Aggressivo e ambizioso: il perché della rabbia di Kirk Douglas nella vita e sullo schermo - Corriere della Sera

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Kejar Tayang |

La rabbia del successo. Non era simpatico. O meglio: lo era fin troppo, voleva sempre strafare e così finiva per diventare odioso. Troppo sicuro di sé, troppo aggressivo, troppo divorato dalla voglia di essere il primo, di emergere... Non so se c’è un altro attore che ha saputo incarnare la rabbia del successo meglio di Kirk Douglas, con quel suo sorriso strafottente, con quegli occhi che ti trapassano, che guardano già alla prossima mossa, a come farti uno sgambetto. A me non ne viene in mente un altro come lui.

Si rischia di cadere nella psicologia spicciola, nel determinismo da quattro soldi, ma non si possono dimenticare le condizioni in cui Issur Danielovich Demsky divenne Kirk Douglas: più che la povertà del «figlio del venditore di stracci», la determinazione con cui la madre lo incitò a studiare unico figlio maschio tra sei femmine, a diplomarsi, a trovare una strada che lo portasse fuori da quel mondo di povertà in cui rischiava di crescere. E non è un caso che quando il successo (e l’ambizione) lo spinsero a creare anche la propria casa di produzione decidesse di chiamarla Bryna, proprio come la madre. Quella energia se la portava scritta in faccia, insieme alla voglia di essere simpatico a tutti i costi: sempre sorridente, ma a denti stretti. Non può essere un caso se il suo primo ruolo al cinema è stato quello di chi è disposto a ingannare la giustizia pur di sfruttare la sorte a proprio vantaggio (testimone di un omicidio, accetta di sposare l’assassina per interesse in Lo strano caso di Marta Ives) e poi quello di chi finge amicizia per costringerti ad accettare le sue condizioni (il gioco del gatto col topo che Douglas fa con Mitchum in Le catene della colpa) o ancora di chi arriva al più squallido cinismo pur di ritrovare il successo (il giornalista dell’Asso nella manica).

Tutti personaggi capaci di buttare a mare legalità e moralità, ma che lo fanno con una determinazione e una rabbia che svelano ragioni più profonde che la semplice voglia di emergere. Ti vien quasi di giustificarli, quei personaggi. Certamente di capirli. Non vengono in mente personaggi riconciliati con la vita nella sua carriera, protagonisti compiaciuti e soddisfatti del proprio status. Forse solo nella sua prima regia (Un magnifico ceffo da galera, storia di un burbero avventuriero che aiuta due ragazzi sulle tracce di un favoloso tesoro) aveva finito per smussare i caratteri più spigolosi del suo carattere, vestendo i panni di un Long John Silver del West ma l’insuccesso lo aveva probabilmente spinto a ricredersi. E infatti per la sua seconda e ultima regia (I giustizieri del West) era tornato a indossare i panni di un personaggio per niente accattivante, un ambizioso politicante a caccia di voti.

Se un’evoluzione c’è stata nei novanta e più film che ha interpretato è stata quella verso una specie di maggior rassegnazione di fronte all’ostilità del mondo: con gli anni, il suo personaggio si è sentito venir meno non la rabbia ma probabilmente la forza che serviva per combattere e ha trasformato questa consapevolezza in una sorta di rassegnato armistizio con il mondo. Non una sconfitta, neppure quando la sceneggiatura sembrava imporlo (in Solo sotto le stelle viene letteralmente ucciso dall’avanzare della modernità, ma per lo spettatore sarà sempre il ribelle che fugge a cavallo e che i poliziotti in jeep non riescono a raggiungere), ma piuttosto una sospensione prima del tempo, un’interruzione per cause di forza maggiore. E non prima di aver tirato fuori tutto il disprezzo e il risentimento per quei disvalori contri cui non ha mai smesso di combattere, proprio come il pubblicitario in crisi del Compromesso, forse il più «autobiografico» dei suoi ultimi grandi ruoli. Paolo Mereghetti

6 febbraio 2020 (modifica il 6 febbraio 2020 | 09:21)

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